WEBER E IL «LAVORO DA SCHIAVO». Riflessioni da Il vecchio e il mare

2-3/2010, [:it]giugno[:en]June[:] ISBN: 8890413611pp. 102 - 117

Abstract

I nomi di Carl Schmitt e Georges Bataille si sono trovati affiancati a più riprese nella letteratura filosofico-politica recente1, campioni di un pensiero del ‘politico’ portato all’estremo, nella radicalità del rifiuto delle forme di pensiero (e di vita) genericamente ascrivibili al liberalismo e nella chiave del suo confine con un diverso ambito concettuale, sia esso la teologia, o una declinazione di etica ‘originaria’, con cui intrecciare il ‘politico’ in maniera tanto ambigua quanto produttiva. Meno indagata risulta invece la direttrice che porta ad attraversare lo spunto tematico che da ambedue questi autori, diversissimi e indifferenti l’uno all’altro, porta fino a Max Weber, e all’intersecarsi, nelle ricerche storico-teoriche di questo, del processo di razionalizzazione con il tema del lavoro. Se non è certo ignota agli studiosi la predilezione di Schmitt per il maestro di Erfurt, da cui trae la decisiva categoria di ‘secolarizzazione’ e pure un notevole debito per la genesi del concetto di ‘politico’, l’importanza dell’opera di Weber per Bataille è stata segnalata più volte, senza tuttavia cogliere appieno la centralità della Grundthese weberiana sul nesso tra ascetismo professionale e razionalizzazione capitalistica per il lavoro batailliano del secondo dopoguerra, dalla Part maudite in poi. Non si tratta qui di rilevare con dovizia di dettagli filologici la presenza di Weber negli scritti e frammenti di Bataille, quanto di approntare, proprio attraverso un inedito controcanto schmittiano, un profilo a più voci sul tema del lavoro nella modernità, approfittando, per lambire questo complesso quadro in poche battute – quadro che apparirà forzosamente impressionistico –, di un tracciato trasversale, che prende spunto da un articolo minore dello scrittore francese, Hemingway à la lumière de Hegel. Necessaria premessa di questo quadro è che il mito negativo di Bataille, la razionalità strumentale nell’agire teleologicamente orientato all’accumulazione proprietaria, contenga un profilo singolarmente weberiano. Per definirne i caratteri, occorre tornare al modello della ‘personalità’ impregnata della Zweckrationalität che ha caratterizzato la modernità capitalistica, i cui tratti possono esser desunti al meglio, a grandi linee, da un rapido spoglio degli scritti di Weber. Qui emerge a più riprese, in un arco ventennale che va dal lavoro sull’etica protestante fino alle lezioni sulla Wirtschaftsgeschichte del 1919-20, un mondo governato dall’immagine di un dio lontano, dove dominano organizzazione e specializzazione del lavoro, rapporto determinato tra mezzo e fine, qualificazione dell’individuo in società mediante le sue competenze e l’efficacia del loro esplicarsi: «Così le “buone opere” di stampo cattolico non potevano significare assolutamente nulla, quale “fondamento reale” della beatitudine al cospetto del decreto immodificabile di Dio, così diventava infinitamente importante per il singolo individuo stesso e per la comunità dei fedeli, quale “fondamento di conoscenza” del suo stato di grazia, il comportamento etico e il destino del singolo negli ordinamenti del mondo. Dato che si trattava della valutazione dell’intera personalità come eletta o dannata, poiché nessuna confessione o assoluzione poteva discolparlo e cambiare la sua situazione davanti a Dio, nessuna singola “buona” azione, come nel cattolicesimo, poteva compensare i peccati commessi, allora il singolo era sicuro del suo stato di grazia se era consapevole di trovarsi, nel suo comportamento complessivo, nel principio “metodico” della sua condotta di vita sull’unica retta via: di lavorare per la gloria di Dio»2. La costruzione della personalità eletta è quindi, nella puntuale e celebre ricostruzione weberiana, frutto di un convincimento che si riflette nella metodica del quotidiano: il lavoro è lo strumento dell’autogiustificazione e, col tempo, l’attività lavorativa diventa exemplum imitabile nella comunità, si quotidianizza all’interno della cerchia ristretta della setta. L’iniziale ‘inimitabilità’ delle qualità carismatiche, dell’«eroismo» e delle «facoltà magiche», custodita «nell’interesse del prestigio» perde consistenza, si oggettiva in «qualcosa di acquistabile»3. Non solo, attraverso l’educazione e la cooptazione stessa interna alla comunità (e prima ancora alla setta), il volontarismo insito nell’ascesi individuale alla ricerca della conferma diveniva, specie nelle sette nord-americane, qualità sociale.

Ma in passato e fino ai giorni nostri un contrassegno della democrazia specificamente americana consisteva nel fatto che essa non è un’accumulazione informe di individui, bensì un intreccio di aggregazioni rigorosamente esclusive, ma volontaristiche. […] A noi interessa in primo luogo il fatto che la posizione moderna dei circoli e delle società mondane che si completano mediante cooptazione è in larga misura il prodotto di un processo di secolarizzazione della stessa importanza, un tempo molto più esclusiva, che rivestiva il prototipo di questi gruppi volontaristici, cioè la setta4.

La setta è pertanto il luogo genetico di una coscienza sociale dell’elezione che si esplica nell’attività professionale e nel suo riflesso sociale, che è il riconoscimento della ‘posizione’(che crea poi quell’aristocrazia alto-borghese tipica dei club sociali esclusivi5. A consegnare le chiavi della conduzione della congregazione, e poi della comunità, è quindi la specificità della condotta religiosa della ‘personalità’: «La qualificazione religiosa della personalità, non già un sapere di qualsiasi specie, legittima alla guida della comunità: per questo principio hanno combattuto tutte le varietà dello specifico movimento settario protestante»6

  1. Per un esempio nel solo ambito italiano si pensi a R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1999.
  2. M. Weber, Herrschaft, hrsg. von E. Hanke, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr (Siebeck), Tü-bingen (1999 sgg.), Bd. 4, 2005, pp. 660-661 (trad. nostra, in Economia e società, vol. 4, Dominio, Donzelli, Roma (in preparazione).
  3.  Ivi, p. 530 (trad. nostra in Dominio, cit.).
  4. M. Weber, Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, in Id., Sociologia della religione, trad. it. di G. Giordano, Comunità, Torino 2002, vol. 1, pp. 212-213.
  5. Su cui cfr. M. Weber, Sociologia della religione, cit., vol. 1, p. 201).
  6.  Ivi, pp. 199-200 nota 2.
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