LA DISUMANITÀ DEL LAVORO CONTEMPORANEO

2-3/2010, [:it]giugno[:en]June[:] ISBN: 8890413611pp. 167 - 173

Abstract

Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi di Kafka, è il prototipo dell’individuo contemporaneo: egli potrebbe essere un nostro vicino di casa, un nostro parente, potremmo essere noi. Il personaggio kafkiano si sveglia una mattina inaspettatamente e irreparabilmente tramutato in un insetto: la sua vita è ora impedita fin nelle sue più semplici azioni quotidiane. Tuttavia l’unica preoccupazione della sua famiglia, del suo capo, sua, è che Samsa non sia più in grado di svolgere il suo lavoro, che egli sia inabilitato per la sua professione e quindi per la sua esistenza, due facce della stessa medaglia. Anche in questo racconto, come nelle altre storie dello scrittore praghese, il lavoro è vissuto come ‘privilegio’, per dirla con le parole di Adorno, in base alla kafkiana «abitudine ideologica che trasfigura la riproduzione della vita in un atto di grazia dei padroni, dei “datori di lavoro”»1. Nel mondo di Kafka regna la completa indiscernibilità tra il tutto e le sue parti, così che il carattere ‘disumano’ del lavoro sembra ormai superato perché non più percepito come tale. Integrando alcune riflessioni di Theodor Adorno e Günter Anders, questo intervento si propone di far emergere il problema della ‘disumanità apparentemente umanizzata’ del lavoro in epoca tardo capitalista.
L’ostessa dice a K. ne Il castello: «Lei non è in condizione di vedere realmente Klamm, questa non è superbia da parte mia, perché neppure io ne sono capace. Klamm dovrebbe parlare con lei! Ma Klamm non parla neanche con la gente del paese, mai ha parlato con un abitante del villaggio»2. Klamm è il signore del castello, colui che decide la sorte dell’esistenza di K., in quanto decide della sua possibilità di lavorare: «Mai K. aveva visto il suo lavoro e la sua vita così strettamente intrecciati; tanto che a volte gli sembrava che vita e lavoro si fossero scambiate le parti»3. E proprio per questo egli non può vederlo: Klamm è una presenza-non presenza, uno ‘spettro’ che non si ha di fronte e contro cui non si può nulla.
L’analisi adorniana del sistema tardo capitalista ne coglie lo stesso tratto paradossale. Il filosofo di Francoforte denuncia l’impossibilità di dare un volto umano ai rapporti lavorativi nella società americana degli anni ’60. Ciò è conseguenza di una ‘spersonalizzazione’ della gerarchia del lavoro che Adorno descrive in questo modo: «La spersonalizzazione della struttura autoritaria fa sì che i lavoratori non si vedano più davanti, nella fabbrica, un avversario tangibile. Tutt’al più si urtano con capisquadra, capiofficina, superiori in genere, in una gerarchia in cui è impossibile vedere i vertici»4. I nuovi conflitti sul posto di lavoro coinvolgono, infatti, persone che in realtà non sono rappresentanti di due classi diverse, non sono una vittima tout court contro un carnefice tout court, ma sono solo due membri totalmente intercambiabili, che ricoprono due ruoli all’interno di un’azienda o di un ufficio: «I presunti avversari sono a loro volta sotto pressione, costretti come sono, ad assicurare una determinata quantità di prodotto. Sono, propriamente, dei fantasmi, delle personalizzazioni con cui i dipendenti cercano di ritradurre l’astrattezza e imperscrutabilità dei rapporti nella loro viva esperienza»5. Il contesto entro cui il lavoro è esperito appare come una sorta di ‘seconda natura’ dentro cui ciascuno ha il posto che il ‘destino’ gli ha riservato: «Le forze produttive sono più che mai mediate dai rapporti di produzione; forse così completamente che essi proprio per questo appaiono come l’essenza; si sono completamente trasformati in una seconda natura»6. L’importante è prenderne parte, riuscire a guadagnarsi un ruolo: «In generale, per poter campare ogni singolo deve assumersi una funzione, e gli si insegna a ringraziare finché se ne ha una»7. Ciò è rafforzato dall’illusione che tutti potenzialmente potrebbero accedere ai posti di comando, quindi che ognuno ha avuto il posto che gli spetta: «Gli eletti restano un’infima minoranza, ma la possibilità strutturale basta a mantenere con successo l’apparenza di una chance uguale nel sistema che ha eliminato la libera concorrenza, che viveva proprio di quell’apparenza»8.
Questo non perché la ‘lotta di classe’ e lo sfruttamento siano ormai meccanismi inesistenti; ma perché, a causa di questa spersonalizzazione nell’ambiente-lavoro, la realtà si fa più complessa e non più esperibile dal lavoratore medio: «Ciò impone di considerare lo stesso concetto di classe così attentamente da mantenerlo e trasformarlo insieme. Bisogna mantenerlo: poiché il suo fondamento, la suddivisione della società in sfruttatori e sfruttati, non solo continua inalterato, ma viene acquistando maggiore coattività e stabilità. Bisogna trasformarlo: poiché gli oppressi, che oggi costituiscono la stragrande maggioranza dell’umanità, secondo le previsioni della teoria, non possono sperimentare se stessi come classe»9. Quindi il lavoratore non vive più le sue esperienze e le media con una percezione che lo rende automaticamente integrato, come lavoratore e come consumatore, alla totalità a cui appartiene. In questo modo è pronto ad accettare tutto, è pronto per essere sfruttato senza lottare per i suoi diritti: «La scomparsa della classe è un epifenomeno. È possibile che nei paesi capitalisticamente più avanzati si indebolisca la coscienza soggettiva di classe che in America non c’è mai stata. Ma essa non fu mai un fatto sociale puro e semplice, secondo la teoria doveva essere creata dalla teoria stessa. Quanto più la società integra anche le forme della coscienza, tanto più ciò diventa difficile. Però anche il famoso livellamento delle abitudini consumistiche e delle chances culturali vale per la coscienza dei soggetti sociali, non per l’oggettività della società, i cui rapporti di produzione conservano precariamente la vecchia opposizione»10. Un adattamento completo sembra essere l’unico modo per conservare la propria vita e per partecipare dei privilegi che una società dei consumi può dare. L’autoconservazione del tutto viene introiettata come fosse una priorità di ogni singola esistenza: «Il rifiuto di stare alle regole del gioco rende sospetti ed espone alla vendetta sociale anche colui che non è ancora costretto a digiunare e a dormire sotto i ponti. Ma la paura di essere respinti, la sanzione sociale del comportamento economico si è interiorizzata da tempo con altri tabù, si è sedimentata nel singolo»11.

  1. T.W. Adorno, Appunti su Kafka, trad. it. di E. Filippini, in Prismi, Einaudi, Torino 1972, p. 263.
  2. F. Kafka, Il castello, trad. it. di A. Rho, Mondadori, Milano 1989, p. 85.
  3.  Ivi, p. 93.
  4. T.W. Adorno, Osservazioni sul conflitto sociale oggi, in Id., Scritti sociologici, trad. it. di A.M. Solmi, Einaudi, Torino 1978, pp. 180-181.
  5.  Ivi, p. 181.
  6. T.W. Adorno, Tardo capitalismo o società industriale?, in Id., Scritti sociologici, cit., p. 325. Il concetto hegeliano di seconda natura, come realizzazione dello spirito nella realtà concreta indipendente dal mondo della natura, è centrale nella filosofia adorniana. Adorno lo rivisita e rovescia in chiave lukácsiana, sottolineando come il mondo umano sia il mondo della reificazione e abbia ricreato una natura a cui gli uomini sono pienamente soggiogati. Per un approfondimento si rimanda alla conferenza del 1932, L’idea di una storia naturale, trad. it. di M. Tosti Croce, ne “Il cannocchiale”, II, n. 1-2, 1977, pp. 91-109, dove la seconda natura è definita “il mondo della convenzione”, un mondo “estraniato, deificato, morto”, la cui alienazione è un prodotto storico (cfr. ivi, p. 100). Cfr. anche T.W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, in particolare il capitolo Lo spirito universale e la storia naturale, pp. 268-324, dove emblematicamente si legge: «Ma la seconda natura, ripresa per la prima volta filosoficamente nella Teoria del romanzo di Lukács, resta il negativo, di quella che in qualche modo potrebbe essere pensata come prima» (ivi, p. 321).
  7. T.W. Adorno, Società, in Id., Scritti sociologici, cit., p. 4.
  8. T.W. Adorno, Minima moralia, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, p. 233.
  9. T.W. Adorno, Riflessioni sulla teoria delle classi, in Id., Scritti sociologici, cit., pp. 335-336.
  10. T.W. Adorno, Società, cit., p. 9.
  11. T.W. Adorno, Sul rapporto di sociologia e psicologia, in Id., Scritti sociologici, cit., p. 40.
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